COP26 PART I
È iniziata il 31 ottobre a Glasgow, in Scozia, la COP26. Come richiama la sigla, per l’appunto, si tratta della ventiseiesima edizione della Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico; un appuntamento che sta acquisendo ancor più rilevanza, specialmente perché si è intrecciato con il G20 svoltosi, invece, a Roma. Così, mentre i grandi della Terra hanno chiuso la due giorni romana proprio domenica scorsa, in Scozia si è cominciato a fare sul serio, per rispettare quanto si è stabilito a Parigi, con il noto accordo dell’ormai lontano 2015. Sarà così, o forse no?
Chiacchiere e pranzi di gala
Non possiamo più nascondere la polvere sotto il tappeto quando si parla della gravità del cambiamento climatico e della contestuale tempestività d’azione per rendere il mondo a zero emissioni entro il 2050. Abbiamo imparato a capirlo nella nostra quotidianità, per cui dividere la carta dalla plastica nel vasetto di yogurt non sembra più questa grande fatica, eppure, a margine di ciascuno dei grandi eventi che han fatto seguito proprio al 2015, vien sempre da chiedersi quanti e quali passi si facciano, effettivamente, in avanti. «Basta con i bla bla bla» sta urlando proprio in questi giorni, nuovamente, Greta Thumberg, rilanciando – quale volto più simbolico della corsa contro il tempo intrapresa – il concetto che la questione climatica, per dirla alla Mao Zedong, non sia propriamente un pranzo di gala. Così, in attesa di capire cosa, dalla COP26, possa nascere di concreto per i prossimi importanti anni, è bene fare ancora un passo indietro e guardare i numeri.
Cos’è l’AR6
Numeri e lettere, per la precisione sintetizzati in un’altra sigla: AR6. Infatti, il 9 agosto 2021, l’Intergovernmental Panel on Climate Change ha rilasciato una prima parte del rapporto più importante che abbiamo per conoscere realmente lo stato di salute del pianeta. A sette anni dall’AR5, il nuovo report presentato in estate e che troverà completezza nel 2022, pone l’accento sull’irreversibilità della situazione e di come non ci sia più molto da disquisire, tanto a Glasgow quanto altrove. Infatti, rispetto al precedente, del 2014, i dati non hanno subito variazioni impronosticabili: piuttosto, gli scenari peggiori che il pool di scienziati riteneva allora probabili oggi sono sempre più certi. Per questo motivo, anche a fronte delle suddette buone abitudini che, negli ultimi anni, sono sempre più parte della nostra quotidianità, c’è bisogno di una politica globale e concreta che operi affinché ciò che oggi viene definito virtualmente certo, torni ad essere almeno possibile.
I punti chiave
Per questo motivo, in previsione della COP26 e alla luce di scelte governative sempre più controcorrente sul tema (come quelle della Cina, per esempio, che ha aumentato in questi giorni la produzione di carbone di 1,1 milione di tonnellate per far fronte alla crisi energetica), l’esperto di modelli climatici Gavin Schmidt ha sintetizzato in sei punti quanto emerso dalla prima bozza dell’AR6. Innanzitutto, ed apriamo il primo punto in questione, serve il coinvolgimento collettivo perché ormai gli eventi estremi che si caratterizzano nel mondo sono sempre più collegati alla questione climatica. Pensiamo a siccità, caldo, ma anche alluvioni, come quelli che dalla scorsa primavera hanno colpito Belgio e Germania – per fare solo degli esempi -. Conseguentemente ai fenomeni naturali, spiega invece il secondo punto, il livello del mare dovrebbe lievitare dai 50 centimetri al metro entro la fine del secolo. Prendere tempo non serve più, visto che, come detto, gli scenari pessimistici hanno sempre più possibilità di verificarsi, come rivela anche il terzo punto sottolineato da Schmidt. La certezza, infatti, non sta nel dire succederà, quanto nell’avere dati certi delle conseguenze, sia che le temperature medie salgano di 2 o 4 gradi. Insomma, possiamo fermare la catastrofe, ma se non lo facessimo, sapremmo purtroppo a cosa andare incontro.
Mattia Pintus &
NereidiStudio
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